Grandi lanci di fiori l'altra sera al Regio, alla fine di Ernani: il tenore Fabio Armiliato e il soprano Daniela Dessì li hanno raccolti con giusta soddisfazione. Sono una bella coppia: Ernani è spavaldo, ma anche capace di sfumare la voce in sottigliezze e abbandoni; la Dessì canta con grande dolcezza, timbro morbido, incantevoli mezzevoci, anche nel registro acuto. Accanto a loro, Lucio Gallo (Don Carlo) e Giacomo Prestia (Silva) hanno completato degnamente un cast che valorizza, in questo Ernani, soprattutto il belcanto. «Io sono accusato di amare molto il fracasso e di trattare male il canto» scriveva Verdi al poeta Cammarano, durante la composizione di Alzira. Ora, l'esecuzione dell'altra sera sembrava intenzionata a smontare questa accusa; e ci è riuscita perfettamente, grazie, innanzitutto, al direttore Bruno Campanella, che applica al primo Verdi la stessa misura interpretativa elaborata in una lunga consuetudine con il melodramma italiano del primo Ottocento. Rossini, e, ancor più, Bellini e Donizetti sono i suoi punti di riferimento.
Purtroppo, però, c'è il rovescio della medaglia. Per dare rilievo alla melodia, sostenere il canto con flessibilità, e somma discrezione orchestrale, Campanella ha dilatato i tempi in misura eccessiva: ne è risultato un Verdi assai snervato, privo di spessore e di quella tensione incendiaria con cui Ernani si era affacciato alla ribalta del melodramma italiano, nel 1844, come una elettrizzante novità. «Io amo far cantare le parti come voglio io - scriveva Verdi al poeta Ghislanzoni, librettista di Aida -; però non posso dare né voce né l'anima né quel certo non so che, che dovrebbe chiamarsi "scintilla" e vien comunemente definito colla frase "aver il diavolo addosso"». Appunto. Il «diavolo» è mancato in questa levigata e un po' noiosa esecuzione di Ernani.
Stesse note, positive e negative, per lo spettacolo di Pier'Alli. Le scene sono belle, evocano una Spagna nera e oro e, con le loro forme sghembe, conferiscono alla vicenda un senso di minacciosa oppressione, culminante nella grande scena della congiura, con i suoi cupi suoni sepolcrali, ridotti, peraltro, l'altra sera, a livello di una innocua fanfaretta. Anche i costumi, con le loro tinte calde, creano atmosfera e suggestione. La regia, però, in perfetto accordo con la direzione di Campanella, respinge Ernani in una staticità oratoriale che, proprio con quest'opera, dopo Nabucco e I Lombardi, Verdi aveva completamente abbandonato. E anche questo non favorisce la scorrevolezza dello spettacolo. Resta l'indubbia qualità delle voci che, come sempre, nell'opera italiana sono il pilastro portante: in questo modo si giustifica, quindi, il successo della serata di cui il pubblico ha, evidentemente, accusato il peso, se ha sguarnito parecchie poltrone durante i due intervalli.
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